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Il suk del farmaco

Quello del farmaco è un mercato particolare. Basti pensare che lo stesso medicinale viene acquistato dal S.S.N. dallo stesso produttore a due prezzi diversi, a seconda che l’acquisto avvenga nel canale ospedaliero o in quello per la dispensazione al pubblico in farmacia. Non mancano poi i paradossi: mentre per l’acquisto della famigerata siringa dal prezzo ballerino vi è un obbligo cogente di pubblicizzare gli atti di acquisto nei minimi dettagli, i prezzi dei farmaci dispensati al pubblico sono trattati vis à vis con i produttori “nelle segrete stanze”, senza gara di appalto. Eppure questo segmento vale più di 8 miliardi di euro. Il sospetto che questa “negoziazione privata” lasci margini di extraprofitto al venditore è avvalorato dal fenomeno dell’extra sconto concesso sottobanco al farmacista convenzionato affinché questi abbia interesse a dispensare certi marchi rispetto altri di prodotti uguali e concorrenti.

Addirittura, in ambito regolatorio nazionale, gli esiti di talune negoziazioni finalizzate all’immissione in commercio di nuovi farmaci sono coperti da “patti di riservatezza”. Cioè il venditore ti fa un prezzo particolare solo se tu non lo fai sapere ad altri potenziali clienti (altri Paesi). Ci sono molecole a brevetto scaduto e ad alto impatto di spesa per il S.S.N. commercializzate da numerose case farmaceutiche, sotto forma di brand o di farmaco equivalente. Per esempio nell’ambito degli antiipertensivi. Nessuno ai piani alti del sistema propone che questi farmaci vengano messi in gara tra di loro anche nel canale territoriale, con prevedibili benefici economici. Benefici prevedibili, in quanto quando si fanno gare (nel canale ospedaliero), queste determinano sconti ben maggiori di quelli minimi di legge. Si tratterebbe di una opzione importante, visto che c’è bisogno di realizzare significativi risparmi di spesa, per poter finanziare l’acquisto di onerosi farmaci innovativi, soprattutto in ambito oncologico.

Uno degli strumenti di contenimento della spesa messo in campo è quello del pay-back. Il suo presupposto concettuale è che nel mercato del farmaco acquistato dal S.S.N. il venditore influenza a tal punto le prescrizioni da determinare i volumi di acquisto. Perciò, se supera determinati tetti di fatturato previsto, deve “restituire” il guadagno. Un meccanismo che in un mercato normale sarebbe paradossale, e che, oltretutto, tecnicamente non funziona, visti i reiterati ricorsi accolto dal Tar del Lazio sulla imprecisione dei conteggi inerenti i ripiani a carico dell’industria.

Tra le manovre che potrebbero entrare nella legge di stabilità 2017 vi è quella della fissazione di “sconti-quantità”, cioè un prezzo decrescente per volumi crescenti di vendita, il che appare commercialmente corretto. Questa opzione, tecnicamente più gestibile, potrebbe portare al superamento del pay back.

Il mercato del farmaco ha anche un’altra caratteristica peculiare. Al libero incontro della domanda e dell’offerta si frappone un terzo attore, cioè l’autorità regolatoria, a fissare, appunto, regole sul fronte dei prezzi, della dispensazione, ecc. Se però le regole sono non chiare o carenti, l’effetto dell’intervento dell’Authority è quello di determinare incertezze comportamentali degli attori, contenziosi, ecc. E’ il caso della diatriba in ordine all’impiego dei farmaci biotecnologici, che ormai – e sempre più nel futuro – rappresentano il “core” della spesa. Nella partita sulle casistiche di impiego di questi medicinali si giocano ormai i fatturati importanti delle case farmaceutiche. In primis tra produttori dei brand a brevetto scaduto e produttori di biosimilari (farmaci con medesima base biologica approvati per le stesse indicazioni terapeutiche). Entrano in campo i concetti di “continuità terapeutica” e pazienti “naive”, per indicare nell’un caso la prosecuzione della cura con il farmaco già in uso, nell’altro quale farmaco prescrivere al paziente che entra per la prima volta in trattamento. Tutto si gioca intorno al concetto di “equivalenza terapeutica” tra brand e sui biosimilari, e tra molecole biotecnologiche diverse tra loro ma comprese nella medesima categoria terapeutica. Sul tema l’ente regolatorio è intervenuto con pareri scientifici e indicazioni operative non definitivi e interlocutori, con la sola eccezione di aver sancito l’equivalenza terapeutica e quindi la sovrapponibilità tra farmaci composti da molecole di origine chimica e loro equivalenti (generici). In ogni caso, l’Agenzia del farmaco, cui per legge è stata attribuita la competenza a definire le equivalenze terapeutiche (attività produttiva di possibili rilevanti conseguenze sull’appropriatezza e contenimento della spesa sanitaria), assume paradossalmente una posizione attendista, cioè, in materia di equivalenza terapeutica, si muove solo su imput delle Regioni, che devono inoltrare specifiche richieste documentate. Eppure l’AIFA dovrebbe presiedere con ruolo propulsivo alle politiche del farmaco, nell’interesse nazionale. Ovvio rilevare, poi, come il metodo dell’equivalenza on demand, nella sua farraginosità, si traduca in uno dei tanti casi di inefficienza generale di sistema e spreco di risorse (le stesse attività replicate in parallelo in ogni Regione, ritardi decisionali che comportano maggiori prezzi di acquisto ecc.).

Un altro elemento di incertezza è dato dal ruolo svolto dalle Regioni, che sull’assistenza sanitaria esercitano una competenza “concorrente” con quella statale. Nella spasmodica ricerca di economie di spesa, emanano direttive rivolte alle aziende sanitarie sui comportamenti di acquisto in materia di farmaci, provvedimenti che a volte generano conflitti di competenze e impugnative dello Stato centrale. Soprattutto quando invadono la competenza regolatoria dell’Authority. Ovviamente, poi, i comportamenti sono difformi da Regione a Regione. Qualcuna garantisce la “continuità terapeutica”, qualcuna impone la dispensazione di biosimilari ai pazienti “naive” (con stravolgimento delle regole sulla concorrenza, in base alle quali il farmaco da dispensare è quello che vince la gara, non necessariamente un biosimilare), qualcuna fissa quote percentuali di prescrizioni di farmaci biosimilari, con tanto di incentivo/disincentivo ai direttori generali, senza aver definito su base scientifica in quali casi clinici va dispensato il brand e in quali casi il biosimilare. Prescrizioni un tanto al chilo, insomma. In questo quadro di mancate certezze regolatorie, ad ogni aggiudicazione di gara o delibera regionale di indirizzo fioriscono i ricorsi delle case farmaceutiche e i Tribunali amministrativi – ovviamente non competenti in materia farmacologica – sentenziano come possono, a volte in modo contradditorio. La querelle potrebbe tuttavia nel medio periodo sgonfiarsi in maniera spontanea. Infatti, è in atto un massiccio processo di acquisizione delle case farmaceutiche che producono biosimilari, da parte delle big pharma.

Sul tema della governance complessiva del settore e delle prospettive si è espresso il farmacologo Silvio Garattini, Direttore dell’Istituto Mario Negri, in audizione il 22.2.2016 alla Commissione Affari Sociali Camera dei Deputati:

Sono fondamentalmente d’accordo con le raccomandazioni presentate dall’On. Silvia Giordano e altri nell’ordine del giorno del 22 febbraio scorso. Desidero tuttavia precisare ed espandere il significato di tali raccomandazioni:

  1. Quanto al segreto nella contrattazione dei prezzi, ritengo che, senza regole prestabilite,questa sia una pratica preoccupante, che tra l’altro non pare abbia precedenti nell’acquisto di beni e servizi da parte di strutture pubbliche. Se il segreto sui prezzi dovesse estendersi, questo rappresenterebbe un vulnus alla trasparenza che deve caratterizzare tutte le azioni che impiegano fondi pubblici. Si può accettare una segretezza durante la trattativa, ma poi il non sapere il prezzo di ciò che si prescrive genera confusione.

  2. I prezzi dei farmaci sono in continuo aumento, soprattutto per quanto riguarda i cosiddetti farmaci biologici. In generale, l’industria tende a giustificare il prezzo adducendo le crescenti spese per la ricerca. In realtà, si calcola che sul fatturato globale la ricerca riguardi solo circa l’otto percento. Il problema è diverso. Oggi l’industria farmaceutica tende a fare relativamente poca ricerca intramurale e realizza invece un’attività di scouting a livello internazionale, acquistando prodotti promettenti da piccole industrie start-up, spesso sostenute da fondi pubblici. Poiché c’è competizione per tali prodotti, il loro prezzo d’acquisto sale: si ritiene che l’acquisto del sofosbuvir (il primo farmaco anti- epatite C) sia stato pagato circa 11 miliardi di dollari. Ma tale investimento non rappresenta una spesa per la ricerca come impropriamente si sostiene da parte industriale. È questa interpretazione distorta della realtà che fa dire all’industria che il costo per la ricerca e lo sviluppo di un farmaco sia arrivato a circa 1,5 miliardi di dollari. Le stesse considerazioni valgono per i farmaci antitumorali che rappresentano attualmente una spesa ospedaliera importante e in continuo aumento.

  3. Di fronte al fatto che anche un Paese industrializzato come l’Italia non possa sostenere la spesa per farmaci essenziali, occorre riflettere e cercare di porvi rimedio.

    • Alcune modifiche sono necessarie a livello legislativo europeo per permettere all’EMA di esercitare maggior rigore nell’approvazione di nuovi farmaci. Devono essere disponibili tutti i dati che sono alla base dell’approvazione di un nuovo farmaco, visto che non ha senso apporre il segreto industriale sui dati preclinici e clinici.

    • La legislazione attuale prescrive che un nuovo farmaco venga approvato sulla base di tre caratteristiche: qualità, efficacia e sicurezza. Ciò permette di approvare farmaci che non sono distinguibili da quelli già esistenti e tantomeno sono migliori di questi. Ciò accade perché i nuovi farmaci si confrontano con il placebo, anche quando esistono farmaci efficaci per la stessa indicazione terapeutica. Quando si confrontano i nuovi farmaci con quelli già in uso, si mira a documentarne semplicemente la non-inferiorità anziché la superiorità.

    • La legislazione europea ammette per la registrazione di nuovi farmaci solo i dossier preparati dall’industria farmaceutica. Questo rappresenta un enorme conflitto di interessi. Sarebbe necessario che almeno uno studio clinico controllato di Fase 3 venisse condotto da un ente indipendente no-profit e i suoi risultati facessero parte del dossier registrativo.

    • Se questi principi venissero accolti sarebbero pochi i nuovi farmaci approvati. Ciò ridurrebbe la spesa farmaceutica per farmaci non innovativi, sostenuti non dall’evidenza scientifica, ma solo dalla pressione promozionale, in cui l’industria farmaceutica investe molte volte di più di quanto investe in ricerca e sviluppo.

  4. Occorre rivedere in modo sistematico il Prontuario Terapeutico Nazionale per eliminare i molti farmaci ormai obsoleti e quelli con prezzi non competitivi. L’ultima revisione, che risale al 1993, ha permesso di eliminare farmaci inutili per un risparmio annuo di circa 3.000 miliardi di lire. È inutile mantenere nel Prontuario prodotti che sono ancora sotto copertura brevettuale e hanno un prezzo elevato, quando vi sono farmaci dal nome generico che costano molto meno. Se si eliminassero alcuni prodotti ipocolesterolemizzanti, antidiabetici e antipertensivi, si potrebbero risparmiare molte centinaia di milioni di euro senza danneggiare gli ammalati. Infatti, non esistono prove che farmaci ancora sotto copertura brevettuale siano superiori rispetto ai farmaci dal nome generico nella stessa classe terapeutica.

  5. Non si capisce perché i pazienti debbano aver speso nel 2014 circa un miliardo di euro per pagare un ticket riguardante la differenza di prezzo tra farmaco dal nome di fantasia e farmaco dal nome generico. Se il Prontuario obbligasse tutti i prodotti – generici e di riferimento – ad avere lo stesso prezzo, il cittadino risparmierebbe e in prospettiva vi sarebbero meno farmaci della stessa classe terapeutica. La situazione è molto più grave per i farmaci biosimilari, quelli che rimpiazzano alla fine della copertura brevettuale i farmaci di origine biologica. In questo caso si tratta di risparmi molto importanti, perché il prezzo di questi farmaci è molto elevato. Ad esempio una ditta norvegese ha dichiarato che il prezzo per grammo di trastuzumab, un antitumorale contro il tumore della mammella, può scendere dagli attuali 3.000 euro al grammo per il farmaco biologico a di 31 euro per il farmaco biosimilare. Anche nel caso dei biologici si potrebbe imporre il prezzo dei biosimilari come condizione per rimanere nel Prontuario.

  6. Si suggeriscono anche altre iniziative:

    • Richiedere alle industrie per ogni nuovo prodotto una composizione analitica delle voci che concorrono a stabilire il prezzo.

    • Stabilire un rapporto inverso fra volumi di acquisto e prezzo.

    • Rimborsare in rapporto ai risultati ottenuti.

    • Realizzare aste pubbliche per i prodotti che più incidono sulla spesa.

    • Realizzare un sistema di negoziazione europea per avere maggiore potere negoziale.

    • Giungere in casi estremi, quando sia in gioco la vita dei pazienti, alla sospensione o all’abolizione del brevetto.

  7. È essenziale rafforzare la ricerca indipendente per offrire migliori basi di evidenza agli interventi del SSN. Per quanto riguarda i farmaci una legge del 2005 aveva messo a disposizione risorse per studi clinici indipendenti. La disponibilità di tali risorse non grava sulla spesa pubblica, perchè i fondi derivano da una tassa che l’AIFA impone alle aziende farmaceutiche in rapporto (5%) al loro investimento in attività promozionali (eccetto i  salari). Inspiegabilmente dal 2012 i bandi di concorso si sono interrotti, nonostante i fondi siano disponibili. La ricerca deve essere una componente del bilancio del Fondo Sanitario Nazionale. È necessario realizzare ricerche che siano di interesse del SSN e non necessariamente dell’industria farmaceutica. La ricerca indipendente non è una spesa ma un investimento, perché, se condotta correttamente, rappresenta la migliore “spending review”.”

I costi crescenti dell’assistenza e il contingentamento delle risorse disponibili rendono ineludibile una revisione completa del “sistema farmaco”. Solo così potranno essere garantite equità assistenziale e accesso a tutti a costosi farmaci innovativi salvavita. Cioè si salverà il welfare.

articolo a cura del dott. Marco Boni, direttore responsabile di News4market

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